Probabilmente gente come Bocca o Montanelli oggi inorridirebbe giudicando il giornalismo attuale. Lo stesso è per chi, in ambito musicale, è abituato al registro classico, definendo non musica accrocchi sonori generati da competenze al massimo cibernetiche. Il merito su cui discutere della Trap, genere musicale balzato suo malgrado agli onori della cronaca per la strage nella discoteca di Corinaldo, non è tuttavia di natura tecnica ed estetica.
Ma di contenuti. Ci è voluta un’ecatombe di ragazzini (e anche la morte di una mamma) per puntare l’obiettivo su quello che dicono e di cui parlano questi testi così cari ai giovanissimi: un elogio al sesso, ai soldi e all’apparire. In fondo nulla di nuovo. Fuorviante è però il paragone con le epoche beat, rock ed hippie, dove le trasgressioni erano a corollario di una prospettiva, benché debole ed ingenua come si vedrà, ottimista. Che immaginava e anelava un mondo migliore, fatto di emancipazione e liberazione.
Il problema, come ha scritto il collega Federico Leo Renzi non è il genere in sé ma la società (cioè noi) che l’ha evocato: la Trap interpreta e rende visibile la realtà, ce la sputa in faccia senza filtri buonisti o deroganti e con essa le miserie umane. «Le ha diffuse la Trap? No, circolavano da tempo». E ancora: «Vi fa schifo vederli agghindati con Rolex da 50.000 euro, Nike anni ‘90 da 500 euro a botta, felpe Pyrex pagate 10 volte il loro prezzo di produzione? Chi ha inventato il feticismo del logo, il marketing che associa dei “valori” ad un brand aziendale, la delocalizzazione per aumentare i dividendi degli azionisti?».
In questi giorni un nostro concittadino, il barbiere ed ex porno attore Wendi Grandinetti ha lanciato su Spotify il suo videoclip “Business mask”, rigorosamente Trap. Ad una persona che sul web gli precisa di non amare il genere musicale ha risposto: «nemmeno a me piace… ma la gente vuole questo e Wendi glielo dà».