Da 17 anni Vittorio Catti vive in Romania, ma fra gli anni Ottanta e Novanta è stato uno dei più importanti fotografi rock italiani. E i suoi scatti duri e sgranati un autentico cult nella scena musicale alternativa. Nato a Corio nel 1963, dopo il diploma da geometra al Fermi di Ciriè, si iscrive ad Architettura. Nella prima metà degli anni Ottanta è uno di quei ragazzi che migrano abitualmente verso Torino per trovare scampo alla depressione culturale della provincia. Sono gli anni d’oro di Radio Flash e di locali come il Metro e il Big. È la Torino di Gigi Restagno, musicista e conduttore radiofonico scomparso nel 1997, a cui è stato dedicato il recente film “The beautiful Loser” di Vincenzo Amodio, ancora in circolazione nelle sale cittadine, alla cui realizzazione Vittorio ha collaborato con diverse fotografie.
Ma come sei diventato fotografo?
«Era l’estate dell’85 quando comprai la mia prima macchina fotografica per un viaggio in Portogallo. Al ritorno mostrai gli scatti all’amico Alberto Campo, conduttore radiofonico e giornalista musicale di Rockerilla. Gli piacquero molto e qualche tempo dopo mi affidò un reportage per il concerto di Lloyd Cole and the Commotions al Milleluci di Mirafiori. Ricordo che arrivai senza alcuna esperienza di fotografia di concerti e per di più sprovvisto di flash. E quando sviluppai la pellicola vidi i miei scatti erano un disastro e tirando al massimo la pellicola, riuscimmo a recuperare una sola foto decente. Mi accorsi subito che il problema principale nel fotografare i gruppi dal vivo è la mancanza di luce sul palco. L’uso del flash risolveva tutto ma purtroppo faceva vedere troppo: gli sfondi dei palchi, addetti vari, cose che non potevo controllare. Oltre a questo, l’effetto era molto diverso dall’atmosfera che percepivi guardando il concerto. Tutto questo richiedeva di tirare la pellicola, allungando di molto i tempi di sviluppo. Stampando poi su carta molto contrastata ottenevo delle foto con pochissimi grigi, molto contrasto e sgranate; e poichè mi dilettavo a fare foto mosse, le immagini non erano più delle normali fotografie, ma qualcosa di molto più grafico. Mi innamorai di questo risultato, che usai sempre anche nelle foto di posa, in studio, con il flash. Le riviste non hanno mai amato particolarmente il mio stile, ma nonostante tutto ho collaborato con Virgin Italia, Rockstar, Rockerilla, Fare musica, Buscadero, Comunque ho sempre avuto un approccio punk alla fotografia, senza dare troppa importanza alla tecnica fine a sé stessa. Ricordo che durante la sessione fotografica ai Beastie Boys, al Rolling Stone di Milano, il 2 luglio 1992, un notissimo fotografo, di cui preferisco tacere il nome, rimase sbalordito della bassa qualità della mia attrezzatura fotografica».
Nella seconda metà degli anni Ottanta il suo bianco e nero crudo e violento è ormai ricercatissimo fra i musicisti e il suo obiettivo documenta i più importanti eventi di quegli anni. A sfogliare l’archivio che porta con sé sullo smartphone si resta senza fiato, passando attraverso artisti come Iggy Pop, Hüsker Dü, Björk, Manu Chao, Sonic Youth, Beastie Boys, Nick Cave, giusto per fare qualche nome.
E l’incontro con i CCCP?
«Nell’86 andai al Big a fotografarli e fu immediata folgorazione. Mostrai a Giovanni Ferretti e Massimo Zamboni il risultato e venni subito invitato a seguire il gruppo diventandone il fotografo ufficiale. I 4 anni seguenti culminarono con il servizio per la Virgin su Canzoni Preghiere Danze del II Millennio, con cui guadagnai per la prima volta una grossa cifra. La mia collaborazione con loro terminò nel 1990 e intanto avevo iniziato un sodalizio con i Negazione, per i quali realizzai copertine e altro materiale promozionale, senza però mai vedere una lira».
Ma poi, a metà anni Novanta, Vittorio è stufo dell’ambiente e decide di aprire un capitolo completamente nuovo della sua vita, trasferendosi in Romania, dove vive tuttora e gestisce una piccola azienda familiare.
«Da poco ho ripreso in mano la macchina, perché ho ritrovato il gusto di fotografare per me stesso; nessuna rivista o incarico e nemmeno ne cerco. Mi sono ripreso il piacere di reagire alla realtà che mi circonda usando il mezzo che mi è più affine. Utilizzo quasi esclusivamente piccole macchine fotografiche e continuo ad usare il mosso, lo sfocato, il bianco e nero al 90%, perché per me si vede a colori ma si ricorda in bianco e nero (non ricordo chi l’ha detto ma mi piace). Fotografo la quotidianità, la gente di tutti i giorni, dove vivo o dove vado, perche ogni posto è carico di significati, e non esistono posti banali. Come diceva Helmut Newton, in fotografia ci sono due parole volgari: la prima è arte, la seconda è buon gusto. Mi piace l’essenza del Punk come attitudine. Credo che tutto sta dentro di noi, e io cerco solo di trovare quello che ho dentro. Niente più guru, partiti, associazioni. L’essere un rivoluzionario è disobbedire a quelli che ti vogliono fare appartenere a qualcosa negando la tua unicità».
E continui ad usare la pellicola?
«Assolutamente no. Il digitale è molto più economico ed è l’adesso. Sicuramente non è cool come la pellicola, osannata da tanti pseudo hipster. Ma oggi è il digitale ad essere veramente punk e inoltre offre delle possibilità enormi. Chi come me ha lavorato per tanto tempo con le pellicole può capire che sollievo: niente più sviluppi, stampe, pieno controllo. È vero che oggi tutti fanno foto ed i fotografi per come li conoscevamo stanno scomparendo, ma anche i maniscalchi sono quasi scomparsi. Inoltre c’è anche un aspetto etico: usando il digitale e rinunciando agli acidi che si impiegavano in fase di sviluppo si inquina molto meno».
Vittorio Catti: intervista al fotografo che piaceva ai CCCP