Qualcuno ha detto:
“…vi sono artisti che, nel corso della loro attività, ad un certo punto, si costruiscono una forma per le torte… e poi vanno avanti a fare torte per il resto della vita” (P. Picasso)
Il fenomeno è più ricorrente di quanto si pensi, così come il confine fra artigianato ed arte, assai spesso, stabilito ed imposto dalla solita concezione venale dell’esistenza, diviene così labile ed impercettibile da finire con il gettare un’ombra nefasta su larghe porzioni della produzione di intere generazioni si sedicenti “artisti”.
Domenico non faceva “torte”.
Lui, sebbene fosse un ottimo e colto buongustaio, sebbene fosse un sagace ed esperto conoscitore della buona cucina, non le faceva.
Iniziò prestissimo a sentire quella necessità, “quell’urgenza”, di plasmare la materia (fosse essa stata puro colore o creta, legno, metallo) con insistenza, con caparbietà, con ossessione, ma anche con ironia, curiosità, divertimento, per “spremerla”, “tormentarla”, per imprimere in essa una traccia, un segno, per indurla a subire una profonda metamorfosi, una trasfigurazione, secondo un processo alchemico che la inducesse a
rivelare il proprio segreto, che poi è il segreto delle cose, della natura, tentando quindi di scardinare quel forziere splendente ed inviolabile che preserva gelosamente ed impenetrabilmente le risposte agli interrogativi più alti, più urgenti, più necessari.
La materia inerte che, tramite l’intervento visionario dell’artista, diviene un’altra cosa, senza il bisogno di imitare nulla, senza la febbre di riprodurre quel che già esiste (ed esiste già al proprio meglio). La donna come figura, come, “essere”, emblematico, custode di quella soglia
che divide impercettibilmente il mondo delle cose da quello dell’anima, la donna come creatura eletta, come simbolo, sintesi, metafora della vita
stessa, come pretesto supremo per indagare sui migliori ideali dell’uomo, sulle sue gioie, sulla sua pochezza, sulla sua vocazione all’assoluto, all’infinitamente inconoscibile.
La natura, con i suoi frutti, le sue luci, le sue ombre, la sua materia multiforme, le sue temperature, costantemente ammirata, “interrogata”, “frequentata”, disperatamente amata.
Un’intera vita dedicata alla bellezza, alla trascendenza, sia essa divina o non, accompagnandosi alla totale e disincantata consapevolezza, alla “presenza” a se medesimo, alla fatica di vivere (anche), ma sempre e comunque meravigliosamente munito di un intelligente sorriso.
Così era Domenico…e non faceva “torte”, mai fatte.