La sentenza di condanna dei dirigenti dell’Eternit, potrebbe avere delle conseguenze positive anche per i minatori dell’ex Amiantifera di Balangero con l’opportunità di ottenere dei risarcimenti. Perché gli inquirenti, coordinati dal procuratore Raffaele Guariniello, hanno appurato che, nel periodo 1973-1983 gli industriali svizzeri Schmidheiny, sarebbero stati azionisti della società Cave San Vittore spa.
Ora, restano da verificare bene le loro responsabilità. «Per l’ex Amiantifera è in corso un procedimento penale sui dei casi di operai deceduti o colpiti dalla malattia professionale, che abbiamo raccolto con l’aiuto della Cgil – precisa l’avvocato Laura D’Amico – speriamo che la sentenza Eternit acceleri i tempi di chiusura delle indagini e venga istruito il processo». Quelli che se lo augurano di più sono i vecchi minatori che, dal 1990, hanno affrontato cause, ricorsi e umiliazioni.
«La guerra contro l’amianto è partita da Balangero, la cava più grande d’Europa. Vent’anni fa siamo stati usati come ariete per la crociata contro il minerale killer. Facevamo comodo, poi ci hanno dimenticato tutti». Enzo Biagioni, 67 anni, un quarto di secolo trascorso in miniera, non le manda a dire. «A 22 anni dal fallimento, molti ex dipendenti devono ancora percepire dei soldi di stipendi arretrati, è assurdo», incalza Biagioni. Già, perché dal 1990, quando cessò l’estrazione della fibra, non hanno ancora ricevuto i soldi della liquidazione. Ad alcuni di loro, poi, non è nemmeno mai stata riconosciuta la malattia professionale, «l’asbestosi». Lo sfogo di Biagioni riflette l’umore degli ex lavoratori ancora rimasti.
«Speriamo ci sia un po’ di giustizia anche per noi», scuote la testa Giancarlo Suino, di Corio, 33 anni e mezzo passati a faticare nella cava dove si estraevano 150 mila tonnellate di amianto all’anno, per poi esportarlo in tutto il mondo. Lui, da tempo, convive con delle «placche pleuriche», «Ma, per fortuna, sono ancora vivo» – dice. «Quando sono entrato all’Amiantifera avevo solo 14 anni – rammenta – tutto era come se fosse avvolto da una nebbia sottilissima, “la polvere”, la chiamavamo. Noi indossavamo le mascherine, nei reparti funzionavano dei filtri. Poi, poco prima del fallimento, quando tutto stava andando a rotoli, ci mettevamo gli stracci davanti alla bocca per non respirare veleno». Suino ha raccolto 24 denunce di ex operai della cava. «E ci sono anche casi di persone che si sono ammalate di mesotelioma alla pleura senza essere mai entrati in fabbrica, questo deve far riflettere».
Bernardo Giacomino Piovan, anche lui di Corio, ha passato 30 dei suoi 70 anni in miniera, reparto officina e manutenzione. «Quella che dovevamo effettuare senza fermare gli impianti di estrazione perché si perdevano tempo e soldi – spiega – così ci ricoprivamo di polvere dalla testa ai piedi». Giacomino Piovan ha vinto la causa per avere riconosciuto il danno biologico: «Certo, ma non ho mai ricevuto la cifra che mi spettava».
Oggi, per mettere in sicurezza 320 ettari dell’ex sito minerario, in una dozzina di anni, si sono spesi 25 milioni di euro e l’accordo di programma prevede uno stanziamento di altri 18 milioni di euro. «A breve inizierà lo smantellamento dei capannoni, seppelliremo tutti i veleni recuperati – illustra Massimo Bergamini, direttore di Rsa, che si occupa del risanamento dell’area – poi siamo pronti per avviare il cantiere del fotovoltaico con il posizionamento di 21mila e 300 pannelli» Una nuova vita per la «cava della morte».
Amianto: la guerra è nata qui